Umberto Bellintani è uno dei grandi di una generazione di maestri, quella dei nati negli anni Dieci del secolo scorso. E se accade che raramente venga considerato come tale, è soprattutto per un suo lungo, lunghissimo periodo di volontaria assenza.
Vorrei allora ricordare, a questo proposito, la vicenda che mi ha legato a lui, e della quale sono molto orgoglioso.
Mi aveva appassionato un suo libro, E tu che m’ascolti, uscito nel 1963 da Mondadori, in Specchio, ma che non avevo conosciuto al suo primo apparire non essendo abbastanza precoce per leggerlo a diciassette o diciotto anni. Lo lessi però pochi anni dopo e subito entrò nella mia antologia personale della nostra poesia contemporanea.
Bellintani, lo abbiamo ben imparato, era estraneo a ogni linea di tendenza e l’energia potente dei suoi versi, delle sue figure, veniva a imporsi da sé, con la naturalezza formidabile di un occhio sul mondo capace di deformare il reale per meglio avvicinarsi a una grande profondità di senso.
Detto questo, cercai di farmi vivo con lui, dopo quel suo lungo silenzio, già più che trentennale, ma senza risultati, se non quelli di gentili risposte evasive, come del resto era capitato ad altri estimatori, che volevano sue notizie e soprattutto sue nuove poesie. Finché non optai per la soluzione più opportuna: andarlo a trovare senza altro scopo concreto che non fosse quello di conoscerlo personalmente e rendergli omaggio; beninteso senza retorica o cerimonie. E così fu, con diversi piacevoli viaggi, soprattutto con Valeria e con il compianto poeta Mauro Maconi, divenuto a sua volta amico di Berto, come ormai lo chiamavamo. E un giorno Bellintani mi consegnò un pacco con i testi composti in quel lungo periodo. Testi, in genere, neppure messi in bella, ma scritti su fogli di fortuna. Ma ormai ero riuscito a convincerlo, a uscire dal silenzio finalmente.
Con Mondadori eravamo d’accordo: il libro sarebbe uscito in Specchio, ma occorreva organizzarlo, strutturarlo. D’accordo con l’autore decisi di riprendere anche E tu che m’ascolti, ormai introvabile, anche per dare di Bellintani l’immagine più completa al nuovo lettore.
Un aneddoto significativo per dire dell’autenticità senza enfasi alcuna nata nel nostro rapporto. Un giorno Berto mi telefona e mi fa:”Maurizio, io questo libro non lo voglio più fare”. Io ci resto male e gli do la risposta spontanea più cretina ma in fondo la migliore: “Ma Berto, che figura mi fai fare?” E lui subito: “Ah, beh… Se è così, andiamo avanti, scusami “. Perfettamente in carattere con il personaggio, il quale, mesi dopo, appena uscito il libro venne a salutare me e Mauro in un bar del paese, salvo poi letteralmente dileguarsi al momento in cui iniziava la presentazione di Nella grande pianura, il titolo di questo suo libro riassuntivo, che lo riportava all’attenzione dei lettori quasi come una novità assoluta.
E in effetti la sua poesia continua a essere una fiera novità: rispetto al panorama letterario del suo tempo (straordinario, eccellente panorama, oltre tutto) e rispetto al più modesto e confuso presente.
Un classico, capace di muoversi, con impeccabili dignità formale e stilistica, dall’alto al basso, dalla realtà cruda alla sua epica dilatazione in quella sorta di tendenza a un “enormismo” che attinge, in modo visionario ma sempre concretissimo e mai programmato a freddo, alla più alta tradizione popolare (come in certe opere del suo quasi conterraneo Ligabue), alla libertà inventiva dell’infanzia, come ai misteriosi intrecci dei meccanismi onirici. Il tutto con un’ampiezza di fiato (ma spesso con strappi interni e vere e proprie stilettate) in cui la presenza dell’arcano, la crudeltà della natura, una religiosità tutta particolare agiscono in una ininterrotta tensione, una tensione verso un immenso rispetto al quale il poeta vuole espandersi, aprirsi o immergersi, totalmente, in modo quasi ascetico.
Un dato rilevante, per concludere. Ogni volta che ne ho la possibilità propongo versi di Bellintani a persone che, pur amando la poesia e magari praticandola, ancora non lo conoscono. L’esito è sempre di sorpresa felice, di vera e propria scoperta e piena adesione. Un segno ulteriore per la certezza della sua durata, per la sua dimensione di vero e proprio classico del Novecento.