Inattualità della poesia e della psicoanalisi
11 maggio 2019
“La scienza non regge di fronte all’opera del poeta”
Sigmund Freud
Premesso che l’inattualità di una certa disciplina non depone certo a suo sfavore – l’inattuale, infatti, ha il potere di aprire scorci inediti sul presente –, la poesia e la psicoanalisi partecipano entrambe di tale condizione.
A renderle reciprocamente solidali sono innanzitutto l’uso non abituale della lingua e il valore speciale che le viene accordato, due elementi oggi più che mai distintivi se messi a confronto con lo scadimento e l’imbarbarimento del discorso pubblico nel quale quasi nulla, ormai, distingue la parola da una scarica motoria. Dal momento dunque che le discipline in questione tendono al superamento della funzione puramente meccanica e comunicativa del linguaggio, nonché al contenimento della sua potenziale dose di violenza, si pone per esse il problema di fare resistenza a una deriva etica che passa attraverso una sorta di irresponsabilità linguistica generalizzata.
Nell’esperienza poetica così come nella pratica analitica, la lingua ritrova la sua dimensione di parola, la vocazione a un dire in cui l’intensità del pathos trova nel senso del limite e della misura le condizioni della sua traducibilità. Come la poesia, anche il sogno vive di un suo preciso rigore grammaticale e sintattico oltre che della sua profondità semantica. Obbedisce ad esempio a criteri di raffigurabilità del materiale preconscio e inconscio che sfruttano le vie della metafora e della metonimia. Per quanto criptico ed espresso alla stregua di un rebus o un geroglifico, il processo onirico è così per Freud “un sistema di scrittura” che consente alle immagini e alle parole di veicolare un certo messaggio. Il che significa che ogni sogno è alla ricerca di un buon interprete, domanda ascolto, accoglienza. Se si sogna, se si scrive, è sempre per trovare nell’altro una conferma dello stato di avanzamento della propria umanità, e la cosa vale anche quando questo altro è il sognatore o il poeta stesso.
Ma a salvare il linguaggio dal rischio dell’autoreferenzialità è più nello specifico la relazione che la parola intrattiene con ciò che parrebbe farle eccezione, il silenzio, l’indicibile, il non rappresentabile. Da questo punto di vista, l’“ombelico” del sogno in cui Freud intravede il limite dell’interpretabilità è anche la sorgente segreta, l’inchiostro nel quale il poeta imbeve la sua penna. A riprova del grado di civiltà della nostra attività onirica, Lacan diceva che il sogno produce una salutare rottura del senso atteso (cosa, anche questa, altrettanto vera per la poesia) aggiungendo che “un discorso addormenta sempre, tranne quando non lo si comprende, allora risveglia”. Si rovesciano così le parti: si può ‘dormire’ pur trovandosi in uno stato di coscienza e ci si può ridestare alla vita sognando. Il sogno non rappresenta più, qui, il custode del sonno, del bisogno di quiete, ma l’attivatore del soggetto del desiderio.
Ma quale desiderio? Ecco una questione che tocca nell’intimo la funzione civile del poeta e dello psicoanalista in un’epoca come la nostra che ha umiliato la complessità e il tratto dissidente del desiderio assimilandolo al bisogno, al capriccio, alla brama d’oggetto; che l’ha reso l’ancella dell’appagamento individuale e di una felicità senza inquietudine alcuna. “Fantastica – scriveva invece Freud – non l’uomo felice, ma solo l’insoddisfatto”. Il sogno stesso “mostra l’uomo non dormiente”, cioè l’uomo, come egli scopre dall’analisi dei suoi stessi sogni, il cui desiderio è agitato da un interrogativo etico che concerne la sua relazione col destino, la vita, la morte, gli altri. Questo è vero fin dal ‘sogno dei sogni’ – quello che inaugura la psicoanalisi, noto come il sogno dell’iniezione a Irma – dove un Freud ancora agli esordi interroga il suo oracolo, l’inconscio, per capire dove lo porterà la sua invenzione.
La teoria freudiana del sogno è presa di mira, oggi, dalle feroci critiche delle neuroscienze, ammaliate dall’asetticismo dei circuiti neuronali, interessate, piuttosto che al lavoro del soggetto messo in moto dal desiderio, alle sole condizioni neurofisiologiche del sonno e allo studio degli stimoli provenienti dal tronco cerebrale. E, in perfetta linea con la morale moderna, quel senso dell’assurdo che compare nei sogni, e che per Freud era indice di un conflitto interiore, viene ricondotto a delle più banali e rassicuranti incongruenze cognitive, bizzarre sequenze visive prive di un senso e quindi di un messaggio. La scienza è qui per rasserenarci: il sogno è regolato solo dal cervello, possiamo continuare a dormire tranquilli.
Freud, che alla scienza ci teneva fin troppo, sosteneva allo stesso tempo che il poeta è qualcuno che riempie il vuoto lasciato dalla scienza. Non lo riempie però di ulteriori spiegazioni, formalizzazioni, sistematizzazioni. Non ne fa insomma un terreno di conquista. Al contrario, lo custodisce e ne fa la cassa di risonanza del proprio dire. Un uso, questo, del vuoto che ancora una volta accomuna il fatto poetico e l’interpretazione analitica nel non avere di mira il senso compiuto o corrente, ma le sue eccedenze e le sue eclissi. Si tratta di una riabilitazione della lingua che torna a respirare dei suoi equivoci, sviamenti, sospensioni, allusioni.
Ma allora chi è l’autore del sogno? Lacan risponde così: “È il fattore della parola come è assunto dal soggetto”, per come in sostanza ciascuno decide di far risuonare in sé il mistero che la abita. Da questo punto di vista il sogno e la poesia non sono prodotti ma produttori di umano. Come scrive in un suo romanzo Philippe Forest, “Io sogno. Io chi? Nessuno. Cioè tutti […] Non è chi sogna a inventare i sogni, ma il contrario”.