Da’ al tuo detto anche il senso: dagli ombra
Paul Celan
Poesia e filosofia sono intensità del pensiero che da millenni vivono in quella che potremmo definire una sorta di simbiosi: amore per la parola che si fa ragione e amore per la parola declinata in versi che stregano sono complementari, ovvero rappresentano l’estensione reciproca delle rispettive istanze seduttive, pur nella distinta personalità formale. Si tratta di due ardenti tensioni le quali, grazie al flusso e alla forza delle loro molteplici contaminazioni, alimentano un movimento che, visto nel suo insieme, disegna una duplice spirale lanciata nell’universo (im)pensabile. La metafora della doppia spirale indica l’avvolgimento, il viluppo labirintico, il luogo critico, muovendosi nel quale l’interrogazione rivolta al senso si caratterizza come interpellanza con cui si investe l’implicito (in senso matematico), quale funzione che non è assegnata direttamente, ma in via indiretta mediante un legame tra le variabili indipendenti e la funzione stessa. Ciò senza l’urgenza di esaurirlo, semmai con la necessità di rinnovarlo, arricchendolo così incessantemente di significato.
Ma partiamo dall’inizio, dagli albori dell’umanità. Vedremo come la tesi della coestensione biunivoca e simbiotica di poesia e filosofia abbia illustri e antiche radici.
In origine la poesia, la scienza e la filosofia si manifestarono come fenomeno unitario, intrecciate fra loro in testi poliedrici sorretti da una vis creativa unificante. A supporto di tale tesi sono da menzionare alcuni dei più antichi scritti a noi giunti: gli inni del Rig-Veda, la successiva Bhaga-vad-gita, il Poema di Gilgamesh (che anticipa in qualche modo il viaggio di Ulisse ma anche il pellegrinaggio di Dante all’inferno), la Torah. Si tratta di grandi componimenti metafisici, in cui la visione multiforme della superficie testuale non è che un velo fantasticamente istoriato che adombra e nel contempo illumina gli abissi del presente (quello di millenni fa) così come quelli della nostra vita futura. Hanno forma poetica ma dicono di invenzione e di misure, di fantasticherie cosmogoniche mischiate a evidenze reali, sottendono ricerca al pari di immaginazione.
Venendo alla cultura della Grecia antica, grandi pensatori quali Empedocle, Eraclito, Parmenide scrivevano in versi; lo stesso Platone era poeta e filosofo a un tempo; e poi ci fu il latino Lucrezio.
A questo primo periodo di con-fusione tra le arti dell’intelletto seguì un’evoluzione corrispondente a una sorta di ripartizione del lavoro: i filosofi se ne andarono per le vie nebulose della metafisica; gli scienziati si chiusero nel cerchio ristretto della ricerca compartimentata; i poeti imboccarono un percorso che ben presto si diramò in cento rivoli. I trovatori del Basso Medioevo, abbandonarono le alte cime del pensiero per trastullarsi nella descrizione di amori e leggiadre imprese, riducendo la vita cantata ai sensi e alle emozioni (senza trascurare, però, sottintesi critici verso questo o quel potere dominante). Altri emularono sacre scritture. Altri ancora intrapresero viaggi via via più intimi e decisamente personali.
Nonostante lo sbandamento dall’unicum creativo che caratterizzò alcune generazioni di poeti all’indomani degli esordi dell’umanità, sono poi da menzionare e ricordare, nell’ambito della nascente lingua italiana, grandi maestri che tornarono a dimostrare come, oltre la superficie del bel verso, ci potesse essere dell’altro. Vennero, fra tutti, Dante Alighieri e Francesco Petrarca a rianimare la scena, avvicinando di nuovo, e fortemente, la poesia alla filosofia. E poi, saltando nel tempo, Giacomo Leopardi, poeta-filosofo per eccellenza.
La scienza, tranne rarissimi casi, si confermò come ambito a sé.
In epoche ancor più recenti la duttilità della poesia portò altri autori a ri-con-fondere le idee. Rainer Maria Rilke (1875 – 1926), Giorgio Caproni (1912 – 1990), Paul Celan (1920 – 1970), Yves Bonnefoy (1923 – 2016), Flavio Ermini (1947), Cesare Viviani (1947) si ritrovarono a essere classificati come poeti-filosofi in quanto iscrivibili in un sistema creativo aperto in cui l’assioma non trova giustificazione. Si tratta di autori comunemente definiti di ricerca o, banalmente, difficili: entra qui in gioco l’eco della poesia solamente nominata o al massimo evocata, ma trascurata dai più. All’analfabetismo vero e proprio, che dilagava in un passato non troppo lontano, fa eco tutt’oggi l’analfabetismo poetico.
Riporto qui un pensiero di Sonia Caporossi che sostiene, a mio avviso correttamente, come la macrodistinzione tra poesia lirica e poesia di ricerca sia di fatto una falsa questione, «perché può essere presa per buona a livello essoterico, ma è inutile, fallace e dannosa a livello esoterico». La poesia, per dirla in breve, è intensità una. Anche l’aggettivo difficile appare destinato alla medesima considerazione: da archiviare quale termine meramente accidentale.
La buona poesia non si sottrae mai alla comprensibilità, ovvero alla riconducibilità a un contenuto, sebbene a volte questo sia complesso e dissimile dal dire comune. Anzi, sua prima istanza è la comunicabilità, sottesa alla sua natura primaria di linguaggio (caratterizzato dalla propria forma e non dal contenuto). Cito ancora Caporossi quando dice che «la poesia non è la prosa banale, non è il linguaggio quotidiano. Occorre quindi individuare il principio fondante del poetico, su cui si basi meta-analiticamente la natura insieme comunicativa e trasfigurata della poesia in quanto tale, quel quid che ne determina la sostanza e che la sottrae alla banalità del linguaggio quotidiano». Questo principio fondante sta nella propensione della poesia a decostruire il linguaggio comune e poi a restituirlo in una modalità creativamente insolita. Gino Baratta nel suo saggio Costellazioni di senso e poesia[1], affermava, riferendosi alla poesia contemporanea, che essa è «un gioco metalinguistico, una ricerca degli infiniti possibili […]. Il poeta non è colui che penetra e spiega (semmai questi è il filosofo[2]), quanto colui che attraversa […]. Il poeta è colui che descrive interminabilmente le tracce di un senso e di un linguaggio dispersi, in continua espansione, onnivettoriali».
La poesia può rendere formalmente complessa la propria comprensibilità tramite uno scarto, ossia lo spostamento simbolico di senso dall’immediato del banale alla mediatezza del figurale. Per questo la poesia non va solamente letta, o anche solo amata per com-passione. Va studiata nella sua ardente complessità.
Verità politiche alternative e necessarie
Al termine dell’excursus storico sulla poesia che pensa, proiettiamoci nel contemporaneo.
Soprattutto oggigiorno, quando la mente è ormai potenzialmente libera da superstizioni e contorcimenti confusi, il poeta non può certo raccontare menzogne e anzi tende a ficcare la sua penna sempre più a fondo nel cercare il vero: assoluto, personale, fors’anche illusorio e, naturalmente, sempre provvisorio. L’abbaglio non gli appartiene, semmai egli si fa intrigare dal malinteso, ovvero da ciò che può essere inteso differentemente, così da innescare il due della scoperta.
«La verità va perseguita e l’intelligenza deve essere al servizio della verità. Quando l’intelligenza contraddice la verità, non va né soffocata né piegata. Occorre dire non so, e studiare» sostiene Haim Baharier.[3]
La spinta alla verità esalta la lingua, sicché il filosofo che pure, a suo modo, insegue il vero, è come il poeta: custode della lingua. Il compito di depositario, guardiano e sacerdote del linguaggio umano che si sdoppia nelle due arti sorelle, sostiene il filosofo Giorgio Agamben, è genuinamente politico, soprattutto in un’epoca, come l’attuale, nella quale si afferma con insistenza l’insano tentativo di confondere e falsificare il significato delle parole, per ottenere facile consenso o per affermare idee traballanti che nulla hanno a che fare con la ricerca della verità e della bellezza, e questo grazie al fenomeno della riduzione della parola stessa al ruolo di portatrice di contenuti programmati e omologati.
Poeta e filosofo, quindi, combattono l’appiattimento del pensiero liquido dominante, ne costituiscono l’alternativa necessaria. Se è vero, come è vero, che ciascuno di noi è un’entità irripetibile[4], fatto che alimenta la necessità del dialogo profondo e particolare, non si comprende perché mai dovremmo abbracciare un pensiero nell’ambito della povertà del linguaggio comune.
Oggi più che mai, in una dimensione che ci propone continue soglie da sorpassare in velocità, entra in gioco, l’idea del superarsi, del divenire altro da sé in ottica evolutiva.
Il poeta, sostiene la studiosa Rosaria Di Donato, «è inchiodato alla croce della parola che è per lui dannazione e salvezza in modo totale ed esclusivo: questo è il suo destino». Totale perché la parola lirica esprime tutta l’interiorità del soggetto: il suo modo di vedere, pensare, sentire, dire. Esclusivo è termine probabilmente usato dall’autrice come rafforzativo, ma forse sarebbe meglio dire inclusivo, poiché il destino del poeta è quello di accogliere la realtà e l’irrealtà, il noto e l’ignoto, il limite e l’illimitato. In tal senso ecco che il termine inchiodato diviene di fatto surreale.
Il cammino del poeta è allineato a quello del filosofo, diversamente cadenzato, appena scostato, ma il traguardo (sempre provvisorio) è davvero simile, forse il medesimo per entrambe le figure. «Il compito del poeta non è dire le cose avvenute, ma quali possono avvenire e le possibili secondo verosimiglianza e necessità», sosteneva Aristotele nella sua Poetica. Il lavorìo del filosofo non diverge da quest’ottica. Ricerca, superamento, elevazione a stati di pensiero sempre più alti e nel contempo profondi sono i cardini del suo impegno.
All’inseguimento dell’ignoto
Il già citato Leopardi definì, nello Zibaldone, filosofia e poesia come «le facoltà più affini tra loro». Lo stesso autore avrebbe alla fine considerato criticamente la filosofia vera e perfetta, ma forse perché di vero e perfetto a questo mondo c’è poco, anzi nulla. E qui torniamo alla complementarietà delle due discipline, poiché il nulla è argomento forte della poesia come della filosofia.
«Niente sappiamo del dialogo che intercorre tra poeti e pensatori che abitano vicino su monti quanto mai separati». Questa affermazione dalle sfumature paradossali, tratta da Che cos’è la metafisica di Martin Heidegger, sembrerebbe chiudere in qualche modo il dibattito sviluppatosi particolarmente in epoca romantica intorno alla questione del primato della poesia o della filosofia: le due modalità di pensiero e azione sarebbero vicine ma separate. Tuttavia la frase del filosofo tedesco andrebbe oggi interpretata come l’apertura a una nuova prospettiva ermeneutica nella quale il rapporto fra arte della scrittura lirica e arte del pensiero puro non può che essere reimpostato in vista di una nuova comprensione, nella dimensione dell’incertezza che ormai è lo stato del nostro mondo liquido. «Per ogni determinatezza, per ogni definizione, si accumulano anche le indeterminazioni, le quali mettono in mostra, non l’irrealtà, le infondatezze o le idee vuote, ma due movimenti inseparabili eppure distinti» sostiene Rosa Pierno, poeta e critica della poesia. Anche da questa citazione viene l’idea della doppia spirale cui prima si faceva cenno.
Le relazioni tra filosofia e poesia possono essere le più differenti: armonia, controcanto, occasione, declinazione, risonanza, complicità o addirittura rifiuto, se in termini ri-creativi.
Poesia e filosofia possono illuminarsi vicendevolmente poiché le loro ombre sono della stessa immateriale natura. Incerte in quanto perennemente neo-nate, anzi, neo-nascenti. La creazione, la forza di far sorgere il nuovo, è nel linguaggio, come sostiene Martin Buber, e a parlare è innanzitutto (sempre per primo) l’ignoto, il mistero. Dal poeta e dal filosofo non può che venire responsabile risposta a quel richiamo arcano. Il rispondere fa di noi gli animali singolari e straordinari che siamo.
Le due arti supreme, del pensiero e della parola lirica, possono essere efficacemente accolte, nel loro inestricabile intreccio, quali forme di dialogo rivolto all’ignoto, ovvero come disegno (e mappatura) in progress di una dimensione creativa, fatta di ethos e phatos assieme, che sopravanza ogni rappresentazione concettuale così come finora si è comunemente inteso: forse non c’è alcuna verità da raggiungere e dimostrare, ma questo non significa che sia impossibile confrontarsi (dialogare) con ciò che non è propriamente reale e persino con il nulla.
«Nella mandorla – cosa sta nella mandorla? / Il nulla. / Sta il nulla nella mandorla. / Esso sta e sta / E il tuo occhio – dove sta il tuo occhio? / Il tuo occhio sta in-contro alla mandorla. / Il tuo occhio sta in-contro al nulla. / Esso sta verso il re. / Esso sta e sta». Paul Celan, autore di questi versi, ci dice che Dio coincide con la sua stessa assenza. Egli è il nulla, il nulla illimitato: un’idea che sconcerta ma che spiega, fideisticamente ma anche laicamente, l’amore per l’ignoto esaltato da poeti e filosofi.
Marianna Rascente, nel suo libro Metaphora absurda – Linguaggio e realtà in Paul Celan[5], scrive: «Persa o distrutta la realtà storica, ridotta a nulla, alla poesia tocca il compito di guadagnare ancora realtà viva. Alla poesia l’arduo tentativo di traghettare il linguaggio e il mondo da una realtà storica, frantumata e assente (dopo gli orrori annullanti della Shoah[6]), a una realtà poetica del fare». Questa affermazione mi pare assai affascinante, soprattutto oggi, quando è stato un virus maligno a disgregare ulteriormente la realtà, non solo quella della Storia, ma addirittura quella che si delineava solo un paio d’anni fa nelle prospettive di ciascuno di noi.
Il ritorno al nulla
A conclusione di quanto fin qui scritto è possibile affermare che una poesia e una filosofia che non comunicano nemmeno dicono, sono nulla. E naturalmente non potranno mai nemmeno corrispondere a questo nulla. E ciò benché il nulla esista e porti a dire.
In merito a queste ultime considerazioni, e al nulla in particolare, torno a uno dei testi antichi citati all’inizio: la Torah. In specifico porto ad esempio il Cantico dei cantici e il silenzio sottile di Elia. Ciò che accomuna questi due passi del Libro è l’assenza.
Vale la pena premettere che nella Cabbalà Ein Sof, ovvero Nulla Infinito, è l’espressione usata per concepire Dio prima della sua automanifestazione, ma nello Zohar, libro basilare della tradizione cabbalistica, si riduce il termine a Ein (non-esistente), perché Dio trascende la comprensione umana al punto di essere praticamente inesistente.
Il Cantico (shìr hasshirìm, cantico sublime) fu composto probabilmente nel IV secolo prima dell’era volgare, forse da Salomone, ed è uno degli ultimi testi accolti nel canone della Bibbia ebraica. «Si commenta il Cantico – scrive Guido Ceronetti – per un’oscura intolleranza del suo vuoto (assenza del nome di Dio[7]). Se non c’è Dio allora è più che mai divino. Se c’è l’amore umano allora è la noce dell’amore angelico. In verità, il vuoto del Cantico è lì per confermarne la sacralità. Tutto quel che è vuoto, il vacuum lucreziano, il deserto, una fossa, una carcassa, è una parte del Grande Mistero, significa attesa di Qualcuno o Presenza occulta. Il Cantico è un pezzo di vuoto sacrale. Se dico che il Cantico è vuoto sembra che voglia negargli il sacro. Dico invece che è vuoto per non negargli niente».
In buona sostanza, dunque, nel Cantico Dio non c’è, ma tutto il testo in questione tende a Lui. A riempire il vuoto che la Sua assenza genera. Una tensione che è ricerca, evocazione e, potrei azzardare, creazione di Dio stesso da parte dell’uomo. E questo è uno degli aspetti più intensi dell’ebraismo, sotteso anche dalla lettura esegetica di Ceronetti.
L’Altissimo non poté specchiarsi nella creazione, dice la tradizione, così alla vigilia del primo shabbat creò l’alfabeto. Tramite questo, elidendo il popolo suo il nome santo, Egli visse e vivrà nell’invenzione perpetuata dal mistero della parola. Sappiamo infatti che nell’ortodossia ebraica il nome di Dio non si può invocare (a ragione o invano) ed è quindi sostituito da sinonimi come Adonai (Signore) o Hashem (il nome… che non si può pronunciare). Essenza senza nome, desiderio, speculazione intellettuale, invenzione, sacralità. Questi i passaggi che portano l’uomo a vivificare l’idea di Dio. Filosoficamente e poeticamente.
E veniamo a Demāmâ, parola che indica il silenzio in cui il profeta Elia trova Dio: «Ed ecco il Signore passa e davanti a Lui soffia un vento impetuoso e gagliardo che sconquassa i monti e spezza le rupi, ma non nel vento è il Signore; dopo il vento viene un terremoto, ma non nel terremoto è il Signore. Dopo il terremoto un fuoco, ma non nel fuoco è il Signore, e dopo il fuoco una voce di silenzio sottile (qôl demāmâ daqqâ). Come l’udì, Elia si coprì il volto col mantello […] » (Libri dei Profeti o dei Re 1 -19,11-13).
Una voce di silenzio sottile, dunque, o una voce di silenzio svuotato, come sostiene il teologo ed esegeta Gianantonio Borgonovo. Quest’ultima versione descrive compiutamente il punto di arrivo dell’estasi del profeta: non la semplice percezione che Dio è lì, ma quella di una presenza che è assente, svuotata, appunto. Non c’era modo più essenziale per esprimere l’apice del trasporto mistico di Elia di un ossimoro tanto carico di significato: qôl demāmâ daqqâ. Il momento estatico diviene uno stato di coscienza caratterizzato da un’attenzione concentrata a tal punto che il soggetto si perde nell’oggetto. Non c’è più percezione, o meglio vi è la percezione di non percepire. Il profeta accoglie così perfino un’essenza che si fa sentire nella propria assenza. Demāmâ è parola chiusa in se stessa eppure aperta al futuro. Elena Loewenthal, scrittrice e traduttrice, afferma in proposito che «la cosa che le va più vicino, in italiano, sono i due punti: una pausa nelle parole, una promessa di quel che verrà dopo».
Sintetizzando i significati delle due esperienze con l’assenza sopra accennate potremmo dire che il silenzio è la forma non forma dei nostri modi di affrontare (pensare) l’ignoto che nella sua immanenza ci rende attoniti e muti, ma capaci di intendere l’inudibile.
Il silenzio e l’assenza possono essere plurali nelle loro significazioni, così come lo è l’ignoto stesso cui ci si può riferire con molteplici domande ottenendo altrettanto molteplici risposte, per lo più inverificabili, sicché la loro malia non tramonta da millenni.
Circa il silenzio voglio ricordare un’affascinante definizione della poesia data dal critico e poeta Gio Ferri: «errore del silenzio». E sempre in merito è opportuno almeno citare il capolavoro di André Neher L’esilio della parola. Dal silenzio biblico al silenzio di Auschwitz, opera da cui si ricava l’origine del vitalissimo forse ebraico.
Poiché ormai nessun dio parla più all’uomo, ecco il grande silenzio che da secoli incombe sull’umanità tutta. Proprio questa assenza ormai (o da sempre?) totale viene a riempirsi della poesia e della filosofia, specchi della volontà di comprendere almeno la natura se non il soprannaturale. Ma anche limitando l’obiettivo a ciò che ci circonda o pervade, il mondo materiale e quello immateriale del nostro inconscio, che affonda le radici nel passato e nel contempo ci porta alle illusioni sul futuro, non riusciamo a ottenere certezze soddisfacenti. Possiamo solo continuare a provarci e forse è proprio ciò che poeti e filosofi fanno e faranno abbracciando l’inconnu in una sublime danza, ruvida e necessaria. Sottolineo come la cultura occidentale abbia di fatto esiliato l’incertezza (e quindi l’ignoto). Ma abbiamo dimenticato che esiste una passione dell’incertezza, un brivido da essa suscitato.
Sacra deriva creativa
Concludo con alcuni cenni alla sacralità. Poeti e filosofi talvolta si acquattano nella profondità della scena del sogno o nell’ipogeo di qualche caverna, dove illusione e realtà confliggono (Platone insegna). Forse così fanno comprendendo la dimensione concava della poesia e della filosofia, arti che sanno approfittare della perdita dei significati (emblema della riduttività omologata del mondo contemporaneo, animato dalla polifonia di nuove, potenti sovrastrutturalità) per produrre «una sacra deriva creativa, pronta a transitare in ogni luogo, comune o proibito», scrive ancora Baratta[8]. Sacra deriva, dunque, quasi un rifugio salvifico.
Pronunciando la parola sacro, in accezione sostantivale o aggettivale, è facile liberare gli spettri di nomi quali sacramento, sacrificio, sacrario, sacrilegio, e finanche sacrestia, coro semantico facilmente ambientabile nel teatro della religione, soprattutto nel contesto di una cultura, quella italiana, profondamente segnata dal cattolicesimo. Eppure è possibile liberare questo lemmario dalla pesante ipoteca di dogmi e precetti per restituirgli un significato più pregnante e sostanziale che appare assai utile a ricordarci la nostra natura originaria, quella modalità di essere dalla millenaria storia che spinge inevitabilmente l’umanità curiosa a porsi domande e a tentare risposte aventi a che fare con la dimensione della sacralità. «Pensare è scommettere sulla domanda contro il destino» scrive Baharier[9]. Perché nulla è scritto.
Anche escludendo ogni approccio metafisico, spiritualistico o fideistico, la vita ha bisogno di essere considerata sacra in sé qualora si voglia evitare di avvilirla e declassarla, come è accaduto ogni volta che l’uomo ha tentato la via dell’onnipotenza, esasperando l’antropocentrismo fino ad accettare un’illusione distopica cui la Natura stessa sembra oggi ribellarsi.
Con ciò non auspico un ritorno all’antico, né pavento post-illuminismi o trans-umanesimi, piuttosto spero in una memoria degna della Storia stessa, intesa come vigore consolidato del dubbio, sano e sacro, capace di animare la nostra irripetibilità anche nell’affrontare i cambiamenti che verranno.
Siamo opera in balia del divenire, mai stabile, mai sazia delle proprie trasformazioni; siamo incapaci di controllare ciò che ci muta. Da qui i dubbi, che possono solo essere ordinati, mai sciolti, percorrendo e ripercorrendo la memoria. E quest’ultima non è cosa fissa, data una volta per tutte: essa si decostruisce e si ricostruisce, si ri-crea sviluppandosi in termini di rinnovamento.
«L’età dell’oro – scrive la poeta Mariangela Gualtieri – è un ricordo che viene dal futuro».
Note:
[1] Testo compreso nel volume Le rovine del senso, Cappelli Editore, 1982.
[2] N.d.R.
[3] Cfr. Generare è rispondere o domandare?, Mimesis, 2021.
[4] Cfr. Roberto Della Rocca, Con lo sguardo alla luna, Giuntina, 2015.
[5] Franco Angeli, 2010.
[6] N.d.R.
[7] N.d:R.
[8] Op. cit.
[9] Op. cit.