Relazione nell’ambito del convegno
Poesia, la vertigine della bellezza
di Flavio Ermini – 20 maggio 2017
Inizierò questa mia relazione riproponendovi in sintesi una pagina poco frequentata del capolavoro di Thomas Mann: Doktor Faustus. Si tratta di un racconto che ha per tema l’ultima sonata per pianoforte di Beethoven, la n. 32, op. 111, composizione che Thomas Mann classifica anche come “l’ultima sonata” della tradizione classico-romantica, una sorta di drammatico e sofferto commiato rivolto alla tradizionale forma tripartita del genere sonatistico.
Ebbene, il racconto si svolge in una piccola sala da concerto, dove un modesto quanto appassionato interprete pone all’auditorio una questione che lo guiderà nella difficile interpretazione del brano: «Perché Beethoven non ha aggiunto un terzo tempo alla sua ultima sonata per pianoforte?». Poi siede al piano e suona a memoria tutta la composizione, intervenendo di tanto in tanto con dei commenti; esponendo, per esempio, con spirito caustico, la motivazione data dal Maestro stesso. Interrogato in proposito dal domestico, Beethoven aveva risposto che non aveva avuto tempo… «Non aveva avuto tempo!… Capite? E lo aveva detto “con calma”… Come potergli credere?»
In realtà questa sonata in do minore pone un arduo problema estetico. Registra un processo di dissoluzione e di abbandono del terreno noto, sicuro e familiare. L’arte di Beethoven qui supera se stessa: dalle regioni abitabili e tradizionali si solleva davanti agli occhi sbigottiti di noi comuni mortali nelle sfere di una decisiva ulteriorità rispetto al mondo sensibile. Oscurità e chiarità eccessive, gelo e calore, estasi e pace s’impongono contemporaneamente. Tutto in una cosa sola, senza definizione…
«Un terzo tempo?» domanda l’interprete. «Una nuova ripresa… dopo questo addio? Un ritorno… dopo questo commiato?» Impossibile. Tutto è fatto: nel secondo tempo la sonata raggiunge la fine, un addio senza ritorno.
Qui termina la sonata, qui noi facciamo i conti con la vertigine della bellezza, una vertigine che dà il suo benvenuto a qualcosa che sta “oltre”, senza farsi presente. Che cosa ci insegna? Ci insegna che il compositore (Beethoven nel nostro caso), così come il poeta, non ripete le cose esperibili. Il suo canto dà forma all’essenza di ciò che non è ancora davanti a noi. Le sue composizioni ci parlano di un orizzonte di senso da interrogare. Non di un mondo da spiegare o da riprodurre, ma di un mondo intermedio.
La sonata n. 32, op. 111 ci parla di un tragitto tra l’addio e il benvenuto. È una composizione arrischiante, perché si misura con la vertigine della bellezza. Come non riconoscere in questo spazio intermedio l’elemento costitutivo di tanti lavori letterari? I quaderni di Malte Laurids Brigge di Rilke, per esempio. Questa narrazione nasce da un sentimento di angoscia che comporta un inoltrarsi in una città sconosciuta, in un luogo/non-luogo che impone di imparare a vedere, magari con uno sguardo micrologico, tanto da indurre il giovane protagonista non alla descrizione della città, ma alla percezione di un luogo interiore sconosciuto. Quello di Malte è un avanzare nella conoscenza senza possesso; un avanzare che consente anche a noi lettori di fare i conti con quel “luogo interiore”. Cos’è accaduto? Lo spiega lo stesso Rilke in una sua poesia: «Gli occhi dietro le loro palpebre / si sono rigirati e ora guardano dentro di noi». Come può avvenire? In questo processo Malte si colloca là dov’è incessante l’apparire, là dove l’apertura dell’apparire mette a nudo la vertigine della bellezza. Qui non interessa il “già apparso” una volta per tutte, ma ciò che continua a offrirsi alla percezione per subito celarsi: la notte che svanisce al risveglio, l’antiterra, l’ignoto, l’ingens sylva del nostro stato demonico… Qui siamo messi al cospetto non solo dei fatti che accadono, ma anche dei fatti che potrebbero accadere, o persino di fatti che apparentemente non accadono.
Non sorprende dunque che nel primo dei Sonetti a Orfeo Rilke presenti il poeta come un mago il cui compito è di dare forma con il canto al mondo dell’accadere: «Tutto tacque. Eppure in quel tacere / s’avanzò nuovo inizio». Esattamente come accade a Beethoven: un tacere dopo il secondo movimento per preludere non a un terzo tempo, ma alla vertigine di un nuovo inizio.
Questo concetto viene ben sviluppato da Silvano Martini, il poeta che nel lontano 1976 ha fondato con me la rivista “Anterem”: «I luoghi verso i quali noi ci dirigiamo non hanno consistenza propria; hanno la consistenza che noi affidiamo loro. L’esperienza poetica del pensiero è andare verso qualcosa e costruire quella cosa stessa». Ebbene, cosa vuole dirci Martini? Ci vuole dire due cose: che siamo noi gli artefici del nostro destino; ma soprattutto che siamo noi gli artefici degli elementi che ci circondano, ai quali diamo vita con il nostro dire.
Quei versi di Rilke e queste riflessioni di Martini sono la chiave per accostarci al distico di Hölderlin: «Pieno di merito, ma poeticamente / abita l’uomo questa Terra».
Che cosa ci svela il poeta con questi versi? Ci svela che noi abitiamo la Terra usando, sì, le parole per comunicare: nel commercio, nell’edilizia, nell’industria. Ma noi abitiamo veramente – ovvero autenticamente – solo riconoscendo nelle parole ciò che costituisce noi stessi e il mondo. Insomma noi abitiamo poeticamente solo quando abitiamo entrambi i regni: quello della bellezza e quello della vertigine di cui la bellezza è portatrice, tra l’addio a un luogo noto e il benvenuto all’ulteriorità, un’ulteriorità che vieta ogni ritorno.
Ma noi quando veramente abitiamo? Quando davvero siamo? Noi autenticamente siamo quando ci facciamo prossimi alla nostra essenza. Ci ricorda Rilke nella sua decima Elegia duinese: «Noi che pensiamo alla felicità / come un’ascesa, avremo l’emozione, / che quasi sgomenta, / di una cosa ch’è felice quando cade».
Così accade per la bellezza, come impariamo da Beethoven, che interrompe la sua ultima sonata al secondo movimento, con un cenno di addio, in attesa di una nuova nascita, una seconda nascita che potrà essere sperimentata solo cadendo, solo nella vertigine del precipizio.
Approssimarci alla nostra essenza richiede di proseguire il processo del dire, che impone di percorrere compiutamente la via dell’interiorità per imboccare alfine la via dell’essere, per dare voce all’essere stesso, senza alterarlo né con le proprie opinioni né con i fantasmi del nostro inconscio. Dare voce all’essere vuol dire dare voce alla physis. Ecco l’unico modo di dare corpo alla bellezza, di spingerci verso la sua vertigine senza perderci. Fare come impone Novalis: «Sprofondare lo sguardo nell’anima del vasto mondo». E poiché l’anima è, si sa, un’indole estranea in questo mondo, «sprofondare lo sguardo nel vasto mondo» significa sprofondare lo sguardo nell’estraneo.
Dobbiamo esserne consapevoli. Sprofondare lo sguardo nell’estraneo è una necessità. Richiede di affrancarci dalle apparenze, sottrarci all’io che parla, affrancarci dalle illusioni. Ecco la bellezza!
Per questo Rilke può affermare nell’ottava Elegia duinese: «Così noi viviamo e sempre prendiamo congedo», invitandoci in tal modo a esporci a un nuovo inizio, alla bellezza.